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Le elezioni in Sardegna e la capitolazione della sinistra


 Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista come ruote di scorta dei poli borghesi

Le elezioni regionali in Sardegna hanno registrato una sconfitta politica di Giorgia Meloni. Sul terreno strettamente elettorale le liste della destra hanno persino ampliato la propria percentuale di voto rispetto al risultato delle elezioni politiche del 25 settembre 2022. Ma l'impopolarità del candidato Paolo Truzzu, in particolare a Cagliari, ha zavorrato la coalizione trascinandola nel burrone.
Giorgia Meloni si era intestata sia il candidato sia la campagna elettorale, con punte di esibizione macchiettistica nella volata finale. La sconfitta di Truzzu è dunque a suo carico. Investe le relazioni interne alla destra e intacca l'immagine pubblica della premier. Meloni cerca naturalmente di minimizzare la valenza del risultato. Salvini ne approfitta per rilanciare la carta del terzo mandato per Zaia e i governatori del Nord, cercando di sopravvivere alla disfatta del proprio progetto di Lega Nazionale (“Per Salvini premier”). Nessun immediato terremoto in vista, beninteso, ma le acque della coalizione si increspano, in attesa del voto in Abruzzo.

La coalizione tra PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra ha capitalizzato il tonfo di Truzzu. La candidata pentastellata Alessandra Todde ha beneficiato di un voto più largo di quello della sua coalizione, non senza l'apporto del voto disgiunto targato Lega e Partito Sardo D'Azione.
Il successo politico è stato in ogni caso superiore al successo elettorale. Non ha risolto né poteva risolvere le contraddizioni che attraversano il centrosinistra su scala nazionale, a partire dalla lotta tra PD e M5S per l'egemonia. Ma ha rafforzato Schlein all'interno del PD, disarmando per il momento i malumori interni sul terzo mandato, ed ha legittimato ruolo e ambizioni di Conte.
L'apertura di Calenda al centrosinistra dopo il fallimento dell'operazione Soru è un ulteriore portato del risultato sardo. L'alleanza borghese di liberalprogressisti, liberalconfindustrali e pentastellati rafforza in prospettiva la propria candidatura all'alternanza, in una logica bipolare. È, in prospettiva, un possibile governo di ricambio del capitalismo italiano, in un quadro NATO ed europeista. Il sostegno di PD e M5S alla missione navale nel Mar Rosso, in appoggio allo Stato sionista, riassume la loro natura.

Ciò che invece le elezioni sarde confermano impietosamente è l'assenza di una sinistra autonoma e alternativa ai poli borghesi.
Sinistra Italiana, in compagnia dei Verdi, rafforza il proprio ruolo di ancella subalterna del polo borghese liberale. L'unica vera preoccupazione di Fratoianni era di essere svuotato elettoralmente dall'effetto Schlein e di essere dunque scaricato dalla prossima coalizione di governo. Il 4% e rotti lo ha rassicurato su entrambi i fronti, come il fatto che Calenda non ponga problemi circa la presenza di Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) in coalizione. La larga intesa in Abruzzo da AVS a Calenda, e persino a Italia Viva di Renzi, è in questo senso per Fratoianni un successo strategico.

Quanto a Rifondazione Comunista si è coalizzata con... Azione e +Europa di Emma Bonino attorno alla candidatura del padrone di Tiscali Renato Soru. Per noi nessuna meraviglia. Rifondazione Comunista è stata nella giunta di Renato Soru dal 2004 al 2009. Il suo segretario regionale ha rivendicato pubblicamente non a caso l'esperienza di governo con Soru per tutta la campagna elettorale, ringraziando Soru per il riconoscimento di Rifondazione. Il fatto che Soru, in perfetta coerenza con la propria natura padronale, abbia fatto una campagna elettorale denunciando il reddito di cittadinanza come assistenziale, col plauso naturale di Calenda e Bonino, non ha turbato Rifondazione. L'importante per Rifondazione era il proprio riconoscimento da parte di Soru. Penoso.
Non meno penosa l'assenza di una sola parola sul sito nazionale del PRC circa le elezioni in Sardegna. Delle due l'una. O la scelta di Soru era condivisa (o comunque coperta) dalla Segreteria nazionale, e allora era corretto rivendicarla e intestarsela, oppure non lo era, e allora occorreva dissociarsi. Il silenzio è l'opportunismo peggiore, che i militanti del PRC non si meritano.

La battaglia per un partito indipendente della classe lavoratrice sulla base di un programma anticapitalista è l'unica vera risposta alla capitolazione della sinistra politica. Il PCL è oggi l'unico partito che si batte controcorrente, con coerenza, per questa prospettiva. Costruiamolo insieme.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il governo dei manganelli alla prova della Palestina

 


Si allarga il divario tra le politiche filosioniste e il sentimento pubblico

Le cariche poliziesche a Pisa e Firenze contro manifestazioni studentesche pro Palestina hanno scosso ampi settori di opinione pubblica. L'immagine diretta della violenza repressiva ha suscitato una reazione diffusa di sdegno. Il Presidente della Repubblica, che il giorno stesso delle cariche poliziesche aveva censurato come «inaccettabile violenza»... il manichino di stoffa bruciato di Giorgia Meloni, ha cercato di riequilibrare la propria immagine con ventiquattro ore di ritardo parlando del ricorso al manganello come fallimento dello Stato.

La verità è che il governo a guida postfascista ha inaugurato una stagione nuova nel rapporto con la piazza. Un rapporto selettivo, naturalmente, a seconda della base sociale coinvolta. Le manifestazioni dei trattori hanno potuto bloccare ripetutamente le strade con relativa facilità, trattandosi della base sociale del governo, seppur contesa tra Fratelli d'Italia e la Lega. Lì la polizia non si è mossa. Quando la base sociale è diversa, diverso è l'intervento dello Stato. Che si tratti dei rave party, degli ambientalisti, dei picchetti operai, degli studenti, lì scatta ripetutamente il riflesso d'ordine degli apparati di sicurezza.
Non c'è bisogno sempre di una direttiva esplicita di Piantedosi, che forse in qualche caso avrebbe persino desiderato di evitare grane. Si tratta del comportamento indotto oggettivamente dal nuovo quadro politico. Il poliziotto si sente incoraggiato dalla presenza al governo, finalmente, degli “amici della polizia”. Da qui un senso di copertura e legittimazione che libera la facilità del manganello, cui si aggiunge la corsa di Lega e Fratelli d'Italia ad intestarsi, in reciproca concorrenza, il plauso della polizia. «Chi tocca un poliziotto o un carabiniere è un delinquente» afferma Salvini dopo i pestaggi per fare da controcanto a Mattarella. È la politica legge e ordine come marchio identificativo della destra.

E tuttavia nei fatti di Pisa e Firenze non c'è solo questo. C'è anche il riflesso indiretto della pressione sionista e del clima generale cui questa concorre.
L'ambasciata israeliana, come peraltro in altri paesi, sta moltiplicando le pressioni istituzionali per delegittimare le manifestazioni pro Palestina. Siamo (ancora) molto lontani dal livello di Germania e Francia, dove la stessa libertà di manifestazione viene abolita o chiamata in causa. Lo dimostrano le mille manifestazioni pro Palestina che si sono svolte liberamente in questi mesi. E tuttavia cresce una campagna intimidatoria, a partire da scuole e università, tesa a rappresentare ogni espressione di antisionismo come sospetto antisemitismo da censurare ed eventualmente reprimere. Basta vedere cosa è accaduto sul palco di Sanremo con la censura a Ghali, e davanti alle sedi della Rai, con pestaggi polizieschi esibiti e rivendicati. Lo stesso intervento del ministro Valditara contro le occupazioni studentesche ha tratto spunto, guarda caso, da occupazioni intitolate (anche) alla solidarietà verso la Palestina. Così a Pisa si è detto che il manganello era necessario per difendere la sinagoga dai facinorosi «amici di Hamas» (Donzelli). Una specifica circolare del ministero degli Interni, dopo il 7 ottobre segnalava peraltro alle forze di polizia il rischio di obiettivi sensibili da tutelare.

Gli ambienti della borghesia liberale mostrano disappunto verso questa politica repressiva. La loro principale preoccupazione è che possa incendiare gli animi e radicalizzare i giovani. È una preoccupazione dal loro punto di vista assolutamente fondata. E tuttavia si tratta degli stessi ambienti borghesi che sostengono con entusiasmo la politica estera filosionista del governo Meloni, che ospitano sulle proprie pagine apologie incantate di Israele (vedi Corriere della Sera e Repubblica), che appoggiano la missione navale imperialista a guida italiana sul Mar Rosso, che invocano pubblicamente la massima unità nazionale tricolore attorno a questa politica contro ogni possibile defezione. In altri termini, l'opposizione borghese liberale al governo Meloni, e al suo manganello, è la stessa che gli assicura una preziosa cintura di sicurezza. Il cosiddetto Piano Mattei, le nuove ambizioni dell'imperialismo italiano in terra d'Africa, i programmi di riarmo accelerato dell'Italia per mettersi al passo delle nuove sfide mondiali conoscono proprio in quegli ambienti la massima celebrazione. Basti vedere l'orientamento strategico della rivista Limes di Lucio Caracciolo. Il governo e i suoi metodi repressivi si avvantaggiano di questo sostegno.

E tuttavia il fronte borghese ha un problema che si chiama proprio Palestina. Cresce infatti ogni giorno il divario tra l'isteria filosionista della borghesia italiana e il senso comune dell'opinione pubblica, in particolare tra i giovani. L'orrore quotidiano delle politiche genocide nella terra di Gaza, le crudeltà dell'occupazione sionista in Cisgiordania, suscitano un naturale senso di identificazione nella causa palestinese nella maggioranza della società. Le manganellate e le censure contro le manifestazioni pro Palestina contribuiscono a rafforzarlo.
Il movimento operaio deve entrare finalmente sulla scena per prendere la testa di questo sentimento giovanile. Dare a questo sentimento una coscienza politica e una prospettiva programmatica – antisionista, antiimperialista, anticapitalista – è il compito dei marxisti rivoluzionari.

Partito Comunista dei Lavoratori

La nostra solidarietà a Ghali


 Diamo la nostra piena solidarietà al rapper Ghali che dal palco di Sanremo, nel più totale silenzio del mondo dello spettacolo, ha avuto la sensibilità e il coraggio di denunciare il genocidio in corso a Gaza. Una denuncia autentica, sentita, profondamente umana.


La reazione isterica dell'ambasciatore d'Israele, che censura la presa di posizione del cantante nel nome della denuncia del 7 ottobre, misura ancora una volta l'arroganza cinica del sionismo, che capovolgendo la realtà presenta ogni legittima resistenza palestinese all'oppressione sionista, quali che siano le sue direzioni e le sue forme, come ragione dei propri crimini mostruosi.
Abbiamo sempre criticato la natura politica di Hamas, ma Hamas è parte della resistenza palestinese, e la resistenza è un diritto di ogni popolo oppresso. Tanto più contro un'occupazione che ha un secolo di storia alle proprie spalle, e che oggi rivela una volta di più, in particolare a Gaza, tutta la propria criminalità genocida: con decine di migliaia di morti, innanzitutto bambini, il 70% di case distrutte, la privazione di acqua, cibo, medicine, fosse comuni di palestinesi bendati, prigionieri esibiti nudi su carri bestiame, uno scenario di orrore senza fine.
Il più crudo atto di resistenza all'oppressione, anche nei suoi aspetti più discutibili, è nulla di fronte a tutto questo.

Ancora più scandaloso, se possibile, è il pronto sostegno alla censura sionista da parte dei vertici della Rai, che hanno sentito il bisogno di rassicurare l'ambasciata sionista circa la linea editoriale filoisraeliana dell'informazione pubblica. Da sempre la Rai e i media hanno rivelato una cinica indifferenza di fronte all'oppressione quotidiana del popolo palestinese. Di più, hanno sempre coperto e giustificato i crimini sionisti contro civili, donne, bambini, e le responsabilità delle potenze imperialiste nel loro sostegno determinante ad Israele. Il fatto che oggi partecipino in prima persona alla pubblica censura di Ghali misura una volta di più il loro squallido servilismo verso il sionismo.

A maggior ragione ribadiamo la nostra solidarietà a Ghali. Ci auguriamo che la sua denuncia aiuti a rendere ancor più partecipata la manifestazione del 24 febbraio a Milano, a sostegno del popolo palestinese e della resistenza palestinese.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ennesimo suicidio nei CPR. No alle prigioni di stato! Abbattiamo i muri del capitale!

 


"Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me, la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace."


Con queste parole, scritte sul muro della sua prigione di Ponte Galeria, Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, si è sottratto alla reclusione insensata e crudele inflittagli dallo stato italiano negli ultimi mesi della sua vita. Una reclusione dovuta al suo aver varcato i confini di questo paese, e solamente a questo. Ousmane si trovava in un CPR. Non aveva quindi commesso alcun reato. Era recluso in quanto privo di lavoro, e quindi di permesso di soggiorno.

Con queste parole Ousmane, senza saperlo, risponde anche a Giorgia Meloni e alla sua Africa immaginaria, l'Africa di quel Piano Mattei che dovrebbe tradurre in pratica l'"aiutiamoli a casa loro", cioè l'Africa fantasticata e propagandata a uso e consumo di quella classe capitalista europea che, a suon di prestiti e investimenti, si accinge a spolpare l'osso lanciato dal neocolonialismo dal volto meloniano.

Non c'è nulla di nuovo, in questo ultimo ordinario suicidio di Stato, che lo differenzi dalle decine di altri che sono già avvenuti negli oltre venticinque anni di esistenza degli infami Centri di Permanenza per i Rimpatri, lascito politico del Padre della Patria Giorgio Napolitano, ministro del centrosinistra di Romano Prodi (legge Turco-Napolitano), rimasti in vita con peggioramenti successivi sin dal 1998.
Nulla di nuovo nella modalità in cui il giovane era stato ritenuto idoneo a una permanenza nel CPR. Nulla di nuovo nell'iter burocratico che aveva eliminato ogni possibilità di una sua uscita. Nulla di nuovo nelle proroghe successive, che avevano trasformato la sua detenzione in un incubo che era apparso ai suoi occhi, e che era, senza fine. Nulla di nuovo nella constatazione dell'humus di corruzione del luogo e delle istituzioni coinvolte ("i militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro"). Nulla di nuovo neanche nella solitudine e nello strazio con cui la sua vita è giunta a conclusione, fra abbandono, assenza di cure e controllo, ritardo nei soccorsi, impossibilità di prevenzione.

Non poteva esserci nulla di nuovo perché l'inferno della cosiddetta detenzione amministrativa non può che generare solo, e sempre, la morte di chi non riesce a trovare abbastanza forza per poter a quell'inferno sopravvivere.
Ousmane quella forza non l'ha trovata, perché anche di quella forza è stato privato.

Non esiste un caso "CPR di Milano" o "di Potenza", "di Trapani", "di Macomer", "di Gradisca" o "di Roma": esiste solo un caso "CPR" e "detenzione amministrativa". Facciamo nostre le parole della Rete Mai più Lager - No ai CPR.
Ciò significa, per noi, che non può esserci lotta allo strumento CPR, al suo fine e alla sua logica, se non riconoscendo la loro natura stessa di dispositivo atto a selezionare, smistare, ed eventualmente ed eccezionalmente sopprimere, quella particolare merce che è la forza lavoro importata in questo paese. Ciò vuol dire, semplicemente, affrontare la regolamentazione capitalistica del lavoro immigrato, "regolare" o "irregolare," in Italia e in Europa.

La lotta ai CPR nel nome dello stato di diritto equivale a lottare contro il capitalismo nel nome della bontà d'animo (1). Come se non fosse già il testo della legge a prescrivere che nei CPR (e nelle altre strutture simili) «lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità». Come se, una volta che si dovesse mai riuscire ad ottenere (ammesso che ciò sia possibile) il rispetto della dignità umana dei detenuti e la trasformazione dei meccanismi di funzionamento dei CPR, il problema sarebbe risolto.

Al contrario. La lotta ai CPR chiama in causa i lavoratori in quanto tali, immigrati e nati in Italia. Chiama in causa i sindacati. Chiama in causa un programma che unifichi le lotte in difesa delle condizioni di lavoro, del salario, con le lotte per i diritti di chi vive e chi arrivi in Italia.
La lotta ai CPR è una lotta a questo modello di società, una società che innalza muri intorno alle persone mentre li abbatte intorno alle merci e al denaro. La lotta ai CPR è la lotta al capitalismo.




(1) Ci chiediamo che senso abbia, da comunisti, parlare di «assenza di titoli per cui si è presenti nel territorio nazionale» come di una «condizione» da dover affrontare e sanare con non meglio precisati «processi di regolarizzazione». È proprio il concetto di "titolo per poter essere sul territorio nazionale" che va respinto, in quanto cardine della logica criminale e criminogena, oltre che reazionaria in sé, della irregolarizzazione (e clandestinizzazione) dei migranti. Da comunisti e anticapitalisti, la parola d'ordine dovrebbe essere: abbasso le frontiere, no alla divisione dei migranti e alla criminalizzazione, accoglienza di tutti e tutte coloro che cercano migliori condizioni di vita

Partito Comunista dei Lavoratori

La classe operaia argentina torna in campo


 Lo scorso 24 gennaio uno sciopero di massa ha bloccato l’Argentina contro le politiche reazionarie del presidente ultraliberista di destra di Milei, ma anche contro la volontà politica del governo argentino di dare seguito e farsi promotore e vassallo delle politiche del Fondo Monetario Internazionale, che hanno strangolato e continueranno a strangolare i settori popolari del paese sudamericano.


Javier Milei si era presentato come la faccia antisistema, con una retorica cosiddetta anarcocapitalista e anticasta; invece, ha da subito dimostrato che per lui e la destra l’unica “casta” da sfruttare è il popolo. Infatti, l’offensiva di Milei si è subito palesata con la svalutazione del peso e l’idea per ora non realizzata di dollarizzare l’economia argentina, passando per l’eliminazione dei sussidi statali per energia, trasporti e acqua.

In Argentina la svalutazione era già galoppante, e le attuali politiche della destra mileista stanno determinato un ulteriore aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari. Inoltre, uno dei motivi che hanno favorito la discesa in campo della classe lavoratrice è stato l’annuncio che i dipendenti pubblici con meno di un anno di anzianità non vedranno rinnovati i loro contratti, andando ad ingrossare le file dei disoccupati.

Nonostante l’autentica marea umana presente – le immagini di Buenos Aires erano impressionanti – il governo della borghesia continua nella sua offensiva con l’emanazione del Decreto de Necesidad y Urgencia (1), un vero e proprio paradigma antioperaio con forma giuridica. Nel decreto, tra le altre misure capestro, si legifera sulla limitazione del diritto di sciopero, sull’abrogazione delle leggi di monitoraggio dei prezzi, sulla privatizzazione delle aziende statali quali Aerolineas Argentinas e YPF (2). Il DNU cancella i regolamenti sulla proprietà terriera, i controlli sulle esportazioni estere e taglia le spese per la previdenza sociale.

Il governo argentino ha adottato come corollario al DNU, o meglio come deterrente alle manifestazioni di massa, un protocollo antiprotesta, firmato dalla ministra della sicurezza Patricia Bullrich, al fine di reprimere le lotte, fino all’impedimento fisico di manifestare, arrivando ad arrestare i manifestanti, senza bisogno di un mandato giudiziario e comminando multe per le stesse azioni attuate dai manifestanti.

L’obiettivo della classe lavoratrice argentina deve essere quello di sconfiggere il “piano motosega” di Milei e il FMI, segnalando contestualmente le responsabilità del peronismo che hanno portato al ripudio popolare del governo, dando sfortunatamente a Milei il ruolo di personaggio politico di alternativa.
La crisi la devono pagare i padroni e i banchieri, opponendo al programma capitalista un piano alternativo e popolare che preveda un aumento immediato, in emergenza, dei salari e delle pensioni, finanziando tali misure con il rifiuto di pagare il debito estero e i piani di finanziamento del FMI.
Inoltre, bisogna imporre forti imposte alle imprese nazionali e multinazionali, salvaguardando il carattere pubblico delle imprese statali e nazionalizzando le imprese pubbliche privatizzate.
Questo programma potrà essere portato avanti solo da un governo di lavoratrici e lavoratori, unico soggetto in grado di migliorare le attuali condizioni del proletariato argentino. Per questo obiettivo marcia il Frente de Izquierda y de Trabajadores (Fronte di Sinistra e dei Lavoratori), unico attore politico realmente alternativo e rappresentativo degli interessi sociali e politici delle lavoratrici e dei lavoratori argentini.




(1) Il Decreto è assimilabile ad un Decreto Legge italiano, per mezzo del quale il governo legifera sulla base della necessità ed urgenza.

(2) Rispettivamente la compagnia di bandiera dell’aviazione civile e l’impresa petrolifera di stato

Lukas Vergara

Marcelo Nowerzstern (Roberto Gramar)


 Mercoledì 31 gennaio ci ha lasciato il compagno Marcelo Nowerzstern, più conosciuto col suo nome politico di Roberto Gramar, fondatore e a lungo dirigente del Partido Obrero (PO) argentino (alla sua epoca, Politica Obrera) e successivamente, nell’emigrazione in Francia e rimanendo sempre legato al PO, del Nuova Partito Anticapitalista (NPA) e della sua tendenza di sinistra Anticapitalisme & Révolution (A&R).

Alcuni tra i compagni più vecchi (di militanza) del partito se lo ricordano perché intervenne al primo congresso del nostro partito, nel 2008. Pochi altri per averlo incontrato a una delle Feste annuali di Lutte Ouvrière a Parigi.

Marcelo è morto di tumore all’età di 82 anni, dopo una vita tutta spesa per la rivoluzione.
Giovanissimo militante socialista, poi del gruppo di estrema sinistra antistalinista (ma non trotskista) centrista Praxis, nel 1961, all’età di 19 anni ne uscì con altri sei giovani compagni, tra cui Jorge Altamira, per dar vita ad un gruppo intorno ad una piccola rivista dal nome di Politica Obrera. Tre anni dopo, nel 1964, rafforzatasi con altri militanti, Politica Obrera si costituì in vera e propria organizzazione. Marcelo ne era uno dei principali dirigenti accanto a Jorge Altamira. Ma benché i due apparissero allora come una specie di coppia di amici personali o politici, i caratteri dei due compagni non potevano essere più distanti (perlomeno se erano già quelli che abbiamo conosciuto in anni successivi). Autocentrato e bonapartistico Altamira, convinto di avere tutte le verità in tasca, anche se irrispettoso solo verso i deboli e non verso chi gli teneva testa. Aperto, democratico e senza manie di grandezza, con un carattere che lo faceva amare da tutti, Marcelo.

All’inizio degli anni ’70 fu tra coloro che allargarono la visione nazionale del PO, ponendolo in contatto con il Partito Operaio Rivoluzionario (POR) di Bolivia diretto da Guillermo Lora e poi con la corrente lambertista (dal suo dirigente principale Pierre Lambert) che nel 1972 diede vita con appunto PO e il POR al Comitato d’Organizzazione per la Ricostruzione della Quarta Internazionale (CORQI). Con impegno internazionalista si trasferì con la sua compagna di tutta una vita Ester (con cui ebbe due figlie in quegli anni) in Cile nel 1971, al momento della presidenza Allende, per cercare di costruire un'organizzazione trotskista conseguente in quel paese. Riuscì in effetti a costruire una piccola organizzazione centrata sulla città di Concepción, la Organizzazione Marxista Rivoluzionaria (OMR), che fu travolta dalla repressione golpista, a eccezione di una cellula di giovani portuali che si mantenne per più di un decennio nella clandestinità.

Marcelo si trovava casualmente a Buenos Aires, ma Ester era in Cile e fu arrestata. Dopo un mese, però, essendo straniera, fu espulsa con altri argentini.
È proprio dopo il golpe, nel novembre del 1973, che Marcelo rappresentò il PO ad una riunione del CORQI, largamente dedicata proprio all’esperienza cilena, e fu lì che chi scrive lo incontrò per la prima volta.
Poiché su decisione congiunta del PO e del CORQI Marcelo fu assegnato al lavoro tra gli esuli cileni, la maggioranza dei quali erano rifugiati in Europa, Marcelo si trasferì a Parigi, come funzionario del CORQI, per dedicarsi a questa attività.
La questione si complicò e assunse aspetti drammatici perché Ester, che doveva partire più tardi per raggiungerlo, fu bloccata all’aeroporto di Buenos Aires e imprigionata sotto l’accusa di far parte di un'organizzazione guerrigliera, anzi di esserne una coordinatrice internazionale nel Cono sud dell’America Latina. Fortunatamente si era prima del golpe militare del marzo 1976, e dopo pesantissimi mesi di prigione con altri prigionieri fu rilasciata ed espulsa, e poté riunirsi con Marcelo e le sue figlie a Parigi.

Nel 1979 Lambert e la sua organizzazione (Organizzazione Comunista Internazionalista, OCI, che dominava il CORQI) decisero di attuare una manovra di unificazione con la corrente detta morenista (dal suo lider maximo Nahuel Moreno), che veniva dalla rottura col Segretariato Unificato della Quarta Internazionale. La presenza del PO, storico avversario politico dell’opportunismo morenista in Argentina, creava evidentemente un problema a tale manovra, per cui, con gli inqualificabili metodi loro propri, i lambertisti cominciarono ad attaccare e poi calunniare il PO, arrivando ad espellerlo dal CORQI nonostante questo gli costasse la rottura anche con il POR e altre organizzazioni minori. Tutto questo in un momento in cui la situazione in Argentina, sotto la dittatura di Videla, era al punto più tragico.

Marcelo naturalmente fu licenziato da funzionario, riuscendo però fortunatamente a trovare presto un nuovo lavoro. Nel frattempo partecipava alla piccola cellula del PO in Francia, partecipando in primo luogo all'azione di solidarietà con i militanti latinoamericani vittime delle varie dittature allora esistenti. Nello stesso periodo riprese il contatto tra noi e le organizzazioni interazionali di cui facevamo parte, da un lato, e il PO, inizialmente via Parigi e tramite soprattutto Marcelo. Contatti facilitati anche dall'estrema gentilezza fraterna di Marcelo e Ester, che finché fu possibile (prima cioè dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Marcelo) ospitarono in occasione dei suoi viaggi a Parigi chi scrive nel loro appartamento della periferia della grande metropoli.

Con il ritorno della democrazia borghese in Argentina, Marcelo ritornò per un periodo in Argentina, riprendendo a militare in quello che era diventato il Partido Obrero. Ma ciò non durò a lungo. Ester e le sue figlie, ormai adolescenti e inserite nell’ambiente parigino, erano rimaste in Francia. Dopo circa un anno, anche Marcelo rientrò in Francia. Poiché il PO, con una scelta certo strana per un'organizzazione trotskista, non ha mai avuto una politica di costruzione in situazioni nazionali a partire da piccoli nuclei, il lavoro di politico di Marcelo si limitò per diversi anni al sostegno al PO, anche come suo corrispondente dalla Francia (più qualche rientro breve in Argentina) e alla solidarietà internazionalista. Ma Marcelo era troppo uno spirito politico attivo. Così, vincendo l’approccio limitato di Altamira e, per quanto ci riguarda, con il nostro pieno sostegno, decise circa vent'anni fa di entrare nella sezione del Segretariato Unificato, la Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR), poi trasformatasi in NPA. Naturalmente lo fece in difesa di posizioni trotskiste conseguenti, e quando queste si espressero in una battaglia di tendenza partecipò alla vita della sua sinistra (A&R), non solo come militante ma come dirigente, logicamente rispetto alle sue qualità politiche. Infatti nell’unica occasione in cui A&R elesse un proprio esecutivo nazionale, nel 2015, Marcelo fu uno dei suoi nove componenti. E sempre in rappresentanza di A&R fu eletto nel Comitato Nazionale del NPA. È tanto più significativo questo suo impegno perché da diversi anni Marcelo soffriva e si curava per un tumore.

Nel 2017 scoppiò uno scontro del tutto imprevisto e imprevedibile nel PO. Finalmente la maggioranza del suo gruppo dirigente si ribellò al dominio bonapartistico di Altamira, ponendolo in minoranza, fino a portarlo a una scissione nel 2019. Con sorpresa forse di Altamira ma certo non nostra, Marcelo e Ester scelsero senza esitazione la parte giusta, ossia la maggioranza del partito.
Negli ultimi anni il peggiorare delle condizioni di salute obbligò Marcelo a ridurre sempre di più l’attività politica. Questo fu molto negativo per A&R e per noi, in parte politicamente ma soprattutto sul terreno dei rapporti. Perché, anche per la storia comune, Marcelo era certamente il compagno di A&R più vicino a noi. Rispetto allo stesso PO e alle nostre divergenze con esso, non su tutte le questioni importanti ma certo su alcune di esse (l’analisi catastrofista della situazione mondiale, le posizioni confuse e contraddittorie sul processo di restaurazione del capitalismo in Russia e Cina), era più vicino a noi che al PO.

La scomparsa del compagno Marcelo è quindi una grande perdita, per noi come per il PO, in termini politici. Ma soprattutto è una enorme perdita umana per tutti quelli che lo hanno conosciuto. Compensata da una vita piena, felice accanto a Ester per sessant'anni, sempre il lotta per l’avvenire socialista.

Addio Marcelo.

Franco Grisolia